Perdere treni non è sempre un male
Milano Centrale, Sierra Leone: incontri fortuiti significativi.
“Scusi, il treno per Milano Centrale?”
“È appena partito, dovevo prenderlo anche io.”
“Ah. Come faccio ad arrivare a Milano Centrale?”
“Guarda, devi prendere la metro: esci dalla stazione poi scendi le scale, la verde, due fermate.”
“Ci andiamo insieme?”
“Certo, vieni.”
Mercoledì sera alla stazione Garibaldi di Milano avevo appena perso due treni per pochi minuti: il primo era un Frecciarossa per Torino alle 21.45, in ritardo mi diceva l’app, l’altro era il Malpensa Express che passa da Garibaldi e finisce la sua corsa a Centrale alle 22.05. Al secondo treno perso nel giro di poco ho tirato un calcio contro il muro: belle le partitelle di calcetto con i colleghi e pure quelle a seguire da imbucato con squadre di ragazzini generazione Z, però poi devo pedalare duro per perdere due treni in tre minuti.
Proprio mentre ero indeciso sul da farsi mi giro e incontro lui, B. È straniero, parla abbastanza bene l’italiano ed è giovane: sono indeciso se possa essere uno studente o un giovane lavoratore. Con sé ha un trolley blu, misura da due, massimo tre giorni di viaggio. È curato, sicuramente ha viaggiato comodo. Durante il tragitto verso la fermata della metro e poi ancora sul treno fino alla stazione non parla con me, ma al telefono: che gran compagnia, penso.
Il tragitto è breve, due fermate e scendiamo; a questo punto gli chiedo dove deve andare, se deve prendere un treno o no. Mi dice “Bologna”, io rispondo “Allora andiamo”.
In tutto questo anche io ho un treno da prendere, anzi posso scegliere: 22.12, 22.18, 22.30. Arriviamo ai tornelli, li superiamo e poi ci infiliamo sui vari tapis roulant che portano sotto al tabellone delle partenze e degli arrivi. Alzo lo sguardo, controllo i treni per Bologna e non ce ne sono più, per Torino invece è pieno: quello delle 22.12 è in ritardo di circa dieci minuti e potrei provare a prenderlo e poi agli altri due si è aggiunto il 23.18 che inizialmente m’ero dimenticato.
“Non ci sono più treni per Bologna”.
“Come? No Bologna?”
Mi porge il suo cellulare e mi chiede di cercare quando è il prossimo, rispondo che guardo con il mio e l’applicazione mi dice che il primo Freccia è alle 5.00, poi alle 5.15 c’è il regionale. Rimane di sasso, accenna a qualcosa sui pullman, ma lo stoppo subito perché dovrebbe andare alla stazione dei bus che non è proprio dietro l’angolo. Così, intuendo già la possibile risposta, per prendere tempo e pensare a una soluzione gli chiedo se conosce qualcuno a Milano dove andare: “No”.
In quel momento inizio a preoccuparmi per lui e lui, al contrario, per me: “Tu dove vai?”, “Torino”.
Di getto cerco di snocciolare qualche soluzione, magari anche non proprio ragionata: “Mi sa che le alternative sono due: o cerchi un posto dove stare qui in stazione oppure cerchiamo un ostello qua fuori”. Bofonchia qualcosa che non riesco a capire sul non voler dormire alla stazione: mi pare ragionevole e comprensibile. Alla fine gli dico: “Vieni, ti faccio vedere dove c’è un ostello, però in fretta che altrimenti perdo il treno pure io”. “Sì, sì” e intanto trascina stancamente il suo trolley blu senza accelerare troppo. Usciamo dalla stazione e gli indico dove si trova l’ostello, mi guarda e dice: “mi accompagni?”. Capita l’antifona cerco di allungare un po’ il passo, lui non si scompone e continua con il suo, così gli dico: “vado a chiedere se c’è posto”.
Tutto pieno.
“Senti, ma tu da dove vieni?” “Sierra Leone”. “Ah davvero? Io lavoro per un’organizzazione che in Sierra Leone ha degli ospedali, uno a Goderich”. Quando nomino la città il suo volto finalmente si apre e sorride. Ne nomina altre che non conosco e non capisco, io gli dico che eravamo lì anche quando c’era ebola. Mi chiede se possiamo parlare in inglese.
“Ebòla? Tutta la mia famiglia è morta per ebòla: padre, madre e…”. Il padre era preside, matematico e ha preso il virus a scuola, non capisco se aveva anche uno o più fratelli, ma resto ancora più frastornato quando mi racconta che è andato via dalla Sierra perché tutti pensavano che lui avesse ebola, che pronuncia ebòla. Totalmente solo ed emarginato, poco più che ventenne è andato in Libia, ci è rimasto sei mesi lavorando in un campo. Poi si è imbarcato.
A venticinque anni e con studi di economia non finiti alle spalle, a Bologna è magazziniere. Si lamenta un po’ del lavoro perché è faticoso e lo impiega di notte, aggiunge che sta tenendo soldi da parte per finire di studiare. Però in questi giorni era in ferie ed è andato dal suo amore francese, “bianca” dice esplicitamente.
“You understand me when I speak, no? — “Yes” — Because I studied english at school, I was grown up with books and my father was a principal, so… Education is important, if you are not educated you” — con le mani fa il segno di una testa quadrata che si guarda i piedi.
Mentre parla l’orologio procede, gli dico di aspettare un attimo che provo a chiamare una mia amica di Milano per capire se conosce un posto dove può trascorrere la notte. “Qual è il tuo budget?” gli chiedo ridendo. Riesco ad avere un paio di numeri, ma non trovo posto da nessuna parte, intanto compare sul tabellone il numero del binario del mio treno: sono più o meno le 23.00. Sono davvero mortificato per non riuscire a trovare una soluzione, purtroppo però devo andare, così, un po’ sconsolato, provo a salutarlo. “Ti accompagno”, bisbiglia.
Arriviamo quasi ai binari, ho ancora qualche minuto così gli propongo di fare il biglietto alla macchinetta, tutto va liscio e mentre ci avviciniamo ai cancelli dice: “Chiedi perché non ci sono treni per Bologna”. Mi scappa un po’ da ridere, però lo assecondo e al personale in divisa Trenitalia che controlla il mio abbonamento chiedo: “Ma per Bologna?” “Domattina alle cinque.” “Lui può entrare e stare dentro?” “No, la stazione all’una chiude, deve uscire proprio”. Il mio pensiero corre subito qui, al “modello Milano” e alla sua accoglienza respingente.
“Perché la sala d’attesa dovrebbe restare ancora aperta, visto che non si può più fare shopping?”
A questo punto manca poco tempo alla partenza del mio treno e B. mi costringe quasi ad andare: mi ringrazia, ci diamo la mano e gli dico di scrivermi quando arriva a casa. Prima di salire sul treno ho ancora il tempo di prendermela con la macchinetta delle bibite al binario perché non accetta il bancomat, aiutare due centennials (ragazzetti) con le loro monetine a prendersi due merendine (alla faccia dell’etichetta di nativi digitali, non sapevano come infilare i soldi), andare a un’altra macchinetta, approfittare del credito residuo per prendere una bottiglia d’acqua — di plastica, mannaggia — e, nel vano di un’altra, trovare un pacchetto di salatini. Uno dei due ragazzetti mi chiede ancora se il treno che deve prendere è quello giusto: “sì, vieni, lo prendo pure io” — dove ho già sentito questa frase?
“Ciao Edoardo”. “Ciao, sei arrivato? Tutto bene?”
“Sì sì, grazie”. “Sei andato a lavorare?” “Eh no, stasera”. “Ok”.
“Senti, io conosco Emergency.”
“Davvero?”
“Sì perché un mio amico ha avuto un incidente e l’hanno portato lì.”
“Ah, ma un incidente in auto?”
“Sì”.
Non so perché, ma istintivamente penso che sia andato in un altro ospedale, non riesco tanto a credere che sia possibile una coincidenza del genere. Provo a spiegargli che Emergency è un nome fuorviante — come si dice fuorviante in inglese? — e che all’estero la scritta emergency indica il pronto soccorso.
Lui insiste, e ha ragione: “No, no, l’hanno curato gratis, solo lì succede”. A questo punto da dentro sale un po’ di orgoglio e si ferma a bordo degli occhi “Sì, le persone sono curate gratuitamente in tutti gli ospedali di Emergency”.
C’è un attimo di silenzio, poi riprendo a parlare “Se passi da Milano avvisami che così ti faccio vedere la sede e le altre persone che ci lavorano”.
“Ok, ora ti lascio. Ciao amico”.
Tutte le foto inserite in questo articolo provengono dall’account Flickr Milàn l’era inscì Urbanfile.